Il business del branding, il branding del business

Con Paolo Insinga

Chi sei e di che cosa ti occupi?

Io sono Paolo e lavoro nel mondo del design, più nello specifico sono l’executive creative director di interbrand Italia. Guido un team di una decina di persone per risolvere tematiche di business, ovvero ci sono clienti che hanno delle necessità e delle ambizioni e lavorano a contatto con il nostro team, formato sia da designer sia da persone con formazione di tipo economica. Questa è la formula di Interbrand, dove cerchiamo di trovare soluzioni che non si limitino al semplice styling ma che abbiamo anche una componente di progettazione per ottenere degli obiettivi specifici.

Come ti sei avvicinato al Branding?

Mi sono avvicinato a questo settore attraverso un laboratorio di corporate design, dove ho iniziato progettando la parte più espressiva. Seguendo poi nel tempo altri corsi come metaprogetto, ho iniziato a interessarmi nello specifico al ruolo del brand e lì è nata la magia. Una volta conseguita la laurea ho lavorato per due anni come Freelance e nel 2003 ho iniziato a lavorare per Landor, da allora opero in questo ambito.

Quali differenze possiamo riscontrare tra l’Italia e l’estero nel campo del branding?

Posso fare un confronto tra l’Italia e luoghi come New York e Londra. In Italia sicuramente il campo della comunicazione è più limitato, forse perchè il numero di aziende e il grado di novità in generale tra il nostro e i loro mercati è molto diverso. Il settore del branding negli altri paesi è più grande e ci sono anche un numero di professionisti più ampio, questo va inevitabilmente ad impattare anche sull’offerta formativa e i servizi dedicati a questo ambito.

In un mondo come quello di oggi, dove - in particolare nel campo della comunicazione- è già stato inventato tutto, esistono dei parametri per far sì che un brand esca dalla massa, per far sì che non si omologhi?

Si, mi viene in mente il caso di rebranding per la Juventus, in generale, per ottenere questo tipo di risultato serve un idea di business e dei clienti con una ambizione e che abbiano le idee chiare. Stabiliti questi paletti si può cercare di creare qualcosa che rompa i codici della categoria di riferimento.

Come è possibile far conciliare coerenza e innovazione in un progetto di branding?

Dal punto di vista espressivo, ad esempio, si possono indivisuare i trend attuali e decidere di assecondarli oppure cercare di trovare una pepita e considerarla come punto di partenza per costruire qualcosa che sia unicamente riconducibile a quello specifico brand. Nel caso della Juventus volevamo trasmettere lo spirito della gioventù, non ci siamo adeguati quindi ai codici della categoria calcistica e abbiamo cercato di romperli. Ogni anno rinnoviamo questa attitudine con iniziative e programmi.

Sappiamo che hai diretto il programma di rebranding per Juventus. Il calcio è ormai diventato un settore globale, in particolare un brand come la Juventus è diffuso, molto conosciuto, popolare: come hai deciso di intervenire con un cambiamento così radicale?
E in merito a questo: quanto puoi permetterti di rischiare in un progetto? (che può vedere, in questo caso specifico, magari, tifosi affezionati e forse tradizionalisti).

Non ho deciso io come singolo ma è stato un lavoro in team che ha coinvolto anche altri uffici e il nostro direttore creativo globale. Per quanto riguarda il rischio non c’è una misura generale, bisogna saper leggere il contesto in cui si sta operando e fornire al cliente gli strumenti per poter dare fiducia al progetto, anche con analisi di natura economica per individuare i potenziali rischi.

Com’è venuta l’idea per il nuovo volto della Juventus?

È nata inizialmente su un taccuino facendo degli schizzi e leggendo alcune interviste. Negli archivi abbiamo trovato una citazione di Gianni Agnelli in cui diceva che ogni volta che vedeva la lettera “J” sui giornali si emozionava, subito allora abbiamo pensato che questa lettera contenesse un valore simbolico e l’abbiamo rielaborata tenendo presenti alcuni tratti caratterizzanti del mondo calcistico. Volevamo un segno che fosse capace sia di rappresentare un simbolo per i tifosi sia che fosse idoneo a comparire in altri ambienti.

Quanto i tuoi gusti o le tue passioni influenzano la progettazione?

Noi siamo in generale il prodotto di ciò che consumiamo, quindi lo stesso esercizio di design svolto da team diversi porta sempre a esiti diversi. Questo succede perchè ognuno ha il proprio background culturale e ciò influenza come si reagisce alle diverse situazioni.

Ci sono delle esperienze che consideri particolarmente formative per il tuo settore / consigli che vorresti lasciarci?

Io credo molto nella lettura, nel disegnare le proprie idee e nell’ascoltare attivamente le tematiche che si discutono quando si incontra un cliente o un potenziale utente di ciò che si sta progettando. Il disegno è il punto di partenza dell’immaginazione di nuovi mondi, la lettura ti permette di argomentare ciò che stai realizzando per trasferire la tua idea al cliente in modo efficace. Il cliente inoltre conosce sempre meglio di te il settore nel quale opera, quindi questo scambio con il cliente e con chi ha una formazione diversa dalla tua è la ricetta per fare delle belle cose.